Tra il 2009 ed il 2012 la scuola ha organizzato una serie di incontri con docenti universitari esperti nel campo della letteratura: i Mercoledì Letterari curati dal Prof. Giannino Balbis.
Trovate qui i commenti dello stesso Prof. Balbis, arricchiti da qualche nota biografica sui partecipanti.
Per leggere i dettagli di un incontro o di una biografia, cliccate sul bottone corrispondente.
Nella pagina del sito riservata alle nostre pubblicazioni è possibile consultare e scaricare i volumi, curati dal Prof. Balbis, dedicati ai Mercoledì Letterari.

Gli Incontri: 2009-2010

Giannino Balbis presenta Giorgio Bàrberi Squarotti al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 21 ottobre 2009

Mercoledì 21 ottobre 2009

Prof. Giorgio Bàrberi Squarotti

Università di Torino

Il Novecento letterario italiano

Dopo aver ricordato i limiti della periodizzazione (nella storia letteraria come nella storia in generale), il prof. Bàrberi Squarotti ha individuato le radici del Novecento negli anni ’80-’90 dell’Ottocento, con particolare riguardo alla crisi del Positivismo e del Naturalismo, alla grave crisi politica ed economica dell’Italia di fine secolo e alla svolta in direzione simbolistica dell’arte e della letteratura. Protagonisti di questa svolta, in Italia, sono stati soprattutto Pascoli e d’Annunzio, seguiti da Pirandello e Svevo.

Il momento attuale rappresenta invece il definitivo tramonto del Novecento. Oggi non si concepisce e non si produce più letteratura con funzioni di messaggio, conoscenza, lezione, come è accaduto con molti autori del secolo scorso (Bàrberi si è soffermato in particolare su I vecchi e i giovani di Pirandello, La cognizione del dolore di Gadda, Uomini e no di Vittorini e Il partigiano Johnny di Fenoglio), ma una letteratura facilmente comunicativa, ripetitiva, di rapido consumo.

C’è da chiedersi se ci sia ancora spazio nel nostro tempo per la letteratura tradizionalmente intesa.

La lezione si è conclusa con alcuni consigli di lettura per i giovani. Oltre ai classici antichi (a cominciare da Omero e dai tragici greci) e ai classici italiani (Dante, Ariosto ecc.), Bàrberi ha raccomandato la lettura, fra gli stranieri, di Tolstoj, Dostoevskij e Proust.

Gian Giacomo Amoretti al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 11 novembre 2009

Mercoledì 11 novembre 2009

Prof. Gian Giacomo Amoretti

Università di Genova

La grande poesia ligure del ‘900

Si può parlare di una “linea ligustica” nella poesia italiana del Novecento? La maggior parte della critica, oggi, la ritiene una formula discutibile e superata. Tuttavia è innegabile la presenza di caratteri comuni nei tre maggiori poeti liguri del ’900 (due – Sbarbaro e Montale – propriamente liguri, uno – Caproni – ligure di adozione): soprattutto li accomuna il tema della poesia “in negativo”, la poetica del “non”. Ne è esempio primo la lirica di Sbarbaro Taci, anima stanca di godere (composta nel 1913, precede di tre anni Il porto sepolto di Ungaretti, tradizionalmente indicato come punto d’inizio della poesia italiana del ’900) e ne è esempio compiuto Non chiederci la parola di Montale (del 1923).
Fra i molti percorsi della produzione di Montale (con riflessi anche in Sbarbaro e in Caproni), il prof. Amoretti si è poi soffermato sulla poesia d’amore, con particolare attenzione alla figura di Clizia, ai suoi complessi significati allegorici e al suo ruolo salvifico con sfumature stilnovistiche e religiose. Ambigua e problematica è la religiosità di Montale, che in un celebre verso si definì un povero nestoriano smarrito (confidò a Gianfranco Contini di credere in Cristo-uomo ma di avere difficoltà a credere in Dio). Caratterizzata da una teologia negativa è anche la poesia di Caproni, in particolare nell’ultima raccolta, postuma, Res amissa.

Puntuali ed acute osservazioni il relatore ha riservato a Nuove stanze, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, La frangia dei capelli che ti vela di Montale (testi composti fra il ’39 e il ’41) ed a Res amissa ed Enfasi a parte dell’ultimo Caproni.

Giannino Balbis presenta Alberto Beniscelli al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 9 dicembre 2009

Mercoledì 9 dicembre 2009

Prof. Alberto Beniscelli

Università di Genova

Letture montaliane

La lezione si è incentrata sulla lettura di una delle poesie più impegnate e impegnative di Montale, La bufera, introduttiva ed eponima della terza raccolta montaliana (La bufera e altro), dove al tema conduttore della guerra (la seconda guerra mondiale ma anche la guerra cosmica del male ontologico) si intreccia e si oppone il tema d’amore: Clizia (Irma Brandeis) è partita per l’America nel ’38 per sfuggire alle leggi razziali (il distacco è rievocato nel finale de La bufera), ma torna a far visita al poeta in qualità di donna-angelo, con un ruolo salvifico che infine – in particolare ne La primavera hitleriana, uno dei testi più alti della poesia del ’900 – acquista valenza religiosa e coinvolge l’intera umanità (come Cristo, Clizia si sacrifica per tutti).

De La bufera il relatore ha dapprima ricostruito la vicenda editoriale (dalla prima uscita su “Il Tempo” nel febbraio del ’41 all’edizione svizzera di Finisterre e a quella de La bufera e altro nel ’56), poi ha spiegato il significato dell’epigrafe introduttiva (le parole contro la terribilità della guerra dello scrittore cinque-seicentesco Agrippa d’Aubigné) e quindi ha analizzato capillarmente e puntigliosamente il testo, illustrando di ogni lassa i principali caratteri formali, contenutistici e semantici, in un esemplare percorso critico-interpretativo.
Muovendo da La bufera, infine, ha operato una serie di richiami intertestuali, che hanno riguardato in particolare Lo sai: debbo riperderti e non posso, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, Nuove stanze, La frangia dei capelli e sono culminati nella lettura e nel commento de La primavera hitleriana.

Giannino Balbis presenta Francesco De Nicola al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 10 febbraio 2010

Mercoledì 10 febbraio 2010

Prof. Francesco De Nicola

Università di Genova

Il neorealismo nella narrativa italiana del ‘900

Il Neorealismo è un comune sentire in cui si riconoscono diversi artisti dei primi anni del secondo dopoguerra.
È preannunciato, nel ventennio fascista, da alcune opere che si distinguono dal gusto dominante per l’attenzione alla realtà socio-economica: Gente in Aspromonte di Alvaro, Il garofano rosso di Vittorini, Tre operai di Bernari, il film Acciaio di Walter Ruttmann (sceneggiato da Pirandello e Soldati). Il Neorealismo nasce con Ossessione di Luchino Visconti (’43) e con un importante intervento critico di Mario Alicata e Giuseppe De Santis (’41). Ha il suo culmine negli anni ’45-’50 con i films di Rossellini (Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero), De Sica (Sciuscià, Ladri di biciclette), Visconti (La terra trema).
La prima produzione letteraria neorealista è rappresentata invece dai racconti di vita vissuta, vicende di guerra e Resistenza, ospitati sulle terze pagine dei quotidiani domenicali.

Si afferma un nuovo concetto di “impegno”: nel primo numero del Politecnico (settembre ’45) Vittorini assegna all’arte una finalità non consolatoria ma di denuncia delle “sofferenze” sociali e di lotta per il loro superamento. Il primo romanzo neorealista è Uomini e no (’45) dello stesso Vittorini, seguito da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, Se questo è un uomo di Primo Levi, L’Agnese va a morire di Renata Viganò (solo in parte neorealista, invece, è il romanzo d’esordio di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno). Con gli anni ’50 inizia la fase discendente, simboleggiata dalla scena finale, fiabesca e surreale, di Miracolo a Milano di De Sica (’51). In letteratura la fine è sancita dal romanzo Metello di Pratolini (del ’55). Il salutare bagno di realtà prodotto dal Neorealismo ha però effetti duraturi anche sugli scrittori successivi, che parzialmente lo recuperano (come Cassola con La ragazza di Bube o Bassani con Il guardino dei Finzi Contini) o lo superano in varie direzioni (come lo stesso Calvino e Fenoglio).

Giannino Balbis presenta Luigi Surdich al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 14 aprile 2010

Mercoledì 14 aprile 2010

Prof. Luigi Surdich

Università di Genova

Dante nella poesia del ‘900

Dante è per lunghi tratti una presenza “carsica” nella storia della poesia italiana, dominata del modello petrarchesco; riemerge però fra ’700 e ’800 (con Alfieri, Foscolo e Leopardi), si consolida nell’Ottocento ed è fondamentale nel Novecento.

Lasciando da parte Pascoli e d’Annunzio (per entrambi i richiami danteschi richiederebbero specifiche e complesse analisi), il relatore ha preso le mosse da Gozzano (dove Dante si incrocia spesso con Petrarca, alla luce di un duplice atteggiamento, di recupero e di parodia) per soffermarsi quindi su Ungaretti (in particolare sull’Allegria), Saba (per il quale Dante è il culmine della poesia italiana, mentre Petrarca ne è il guasto), Rebora (Frammenti lirici), Quasimodo (Alle fronde dei salici, Ed è subito sera), Luzi (prima più vicino alle Rime di Dante, poi alla Commedia) ed approdare infine a Montale e Caproni (nei quali la presenza di Dante è particolarmente forte e significativa: Montale è poeta dantesco per eccellenza, Caproni prende da Dante i titoli delle raccolte Il seme del piangere e Il muro della terra).

Giannino Balbis presenta Valter Boggione al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 12 maggio 2010

Mercoledì 12 maggio 2010

Prof. Valter Boggione

Università di Torino

Pavese e Fenoglio

Il binomio Pavese-Fenoglio è ricorrente ma poco plausibile, per la profonda diversità fra i due autori. Il mito è un importante tema che li accomuna e ne attesta le differenze.
Pavese elabora le proprie idee sul mito alla luce delle teorie di secondo ’800 e primo ’900: quella intellettualistica della scuola antropologica britannica, quella evoluzionistica di James Frazer e quella della scuola etnologica tedesca; in particolare è influenzato da Il ramo d’oro di Frazer (che lui stesso fa pubblicare nella “Collana viola” di Einaudi), ma anche da d’Annunzio, Pirandello, Bontempelli, Nietzsche e soprattutto Vico. La visione pavesiana del mito è regressiva: il mito recupera la spontaneità originaria, la visione primigenia del mondo; inoltre è ripetitivo: produce archetipi che si ritrovano in diverse culture. In tutti i romanzi di Pavese c’è un ritorno al passato, ai luoghi d’origine, che implica sempre la scoperta del negativo: il mondo del mito è anche un mondo di violenza, morte, distruzione. Così il viaggio alla fine fallisce: si ritorna per ripartire di nuovo e definitivamente. Pur con la sua parte di orrore, comunque, il mito è una fuga dalla storia: la violenza del mito è finalizzata, ha una ragione ontologica (nella natura non c’è vita senza morte), mentre la violenza della storia non è giustificabile.

I miti di Fenoglio sono più semplici: sono quelli imparati a scuola (attraverso i poemi omerici innanzitutto). A Fenoglio non interessa capire che cos’è il mito e come funziona, ma riattualizzare i miti antichi – o crearne di nuovi – per innalzare l’esperienza quotidiana a livello assoluto ed esemplare: Johnny, ad esempio, è fatto diventare una sorta di supereroe della storia occidentale, un novello Ettore; il partigiano insepolto richiama il mito di Antigone; la battaglia di Valdivilla è assurta al rango delle Termopili, e così via.
Il confronto Pavese-Fenoglio si appunta infine sul mito specifico di Ulisse. Ne La luna e i falò Anguilla è un Ulisse apparente, che fallisce sia nella fuga in America sia nel ritorno a Santo Stefano Belbo: alla fine gli resta solo la consapevolezza di non poter avere un’identità e di non potersi integrare. Nella Malora, invece, Agostino è un Ulisse autentico, seppur in minore: dopo l’esperienza negativa al Pavaglione, torna a casa consapevole delle proprie radici e della propria identità. La luna e i falò si conclude con una ripartenza definitiva e senza meta; La malora, con l’immagine dell’albero che dopo l’inverno riprende vita e ributta le gemme.

Giannino Balbis presenta Vittorio Coletti al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 20 ottobre 2010

Mercoledì 20 ottobre 2010

Prof. Vittorio Coletti

Università di Genova

Il romanzo in Italia

Mentre la poesia italiana del Novecento è inquadrabile in categorie critiche (Futurismo, Crepuscolarismo, Ermetismo ecc.) che ne distinguono momenti, contenuti, caratteri, non altrettanto si può dire per la narrativa, con la sola eccezione del Neorealismo. Si possono tuttavia riscontrare alcuni caratteri ricorrenti, il primo dei quali è l’attenzione ai fatti storici e politici: si pensi a Lussu (Un anno sull’altipiano), Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), Primo Levi (Se questo è un uomo), Rigoni Stern (Il sergente nella neve). Il romanzo italiano ha una forte connotazione nazionale e regionale, già con Manzoni, Nievo, Verga e ancora, per esempio, con Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli) e Luigi Meneghello (Libera nos a malo), per non parlare di Camilleri e del suo singolare dialetto.

Fra i principali caratteri del romanzo negli ultimi decenni (a partire dalla cesura dei primi anni ’70) si segnalano:
a) l’accostarsi della tecnica del racconto e del montaggio al linguaggio televisivo-cinematografico;
b) il perdurare della connotazione regionale (Calvino, Biamonti, Orengo, Maggiani in Liguria);
c) il grande successo del giallo-noir (talora con intento di analisi sociale e denuncia) e, dunque, la forte preminenza della trama;
d) il rilancio del romanzo-saggio (dai romanzi a tesi di Sciascia a Danubio di Magris);
e) l’attenzione alla scienza (es. Il sistema periodico di Primo Levi, Le cosmicomiche di Calvino, Staccando l’ombra da terra di Daniele Del Giudice);
f) l’abbassamento della qualità della scrittura;
g) i primi casi di romanzi italiani scritti da non italiani (fra i migliori, Caduta libera di Nicolai Lilin).

Giannino Balbis presenta Gian Giacomo Amoretti al Centro Scolastico Diocesano di Albenga – 24 novembre 2010

Mercoledì 24 novembre 2010

Prof. Gian Giacomo Amoretti

Università di Genova

La poesia di Ungaretti

La lezione prende spunto dai momenti salienti della biografia e della formazione di Ungaretti (dall’Egitto alla Francia, all’Italia), per appuntarsi sulle prime due raccolte, Allegria di naufragi (1919, poi L’Allegria) e Sentimento del Tempo (1933).
L’Allegria – il titolo allude all’opposizione fra i dolori dell’esistenza, in particolare quelli prodotti dalla guerra (naufragi), e l’amore per la vita (allegria), tanto più forte quanto più terribile è la guerra – è il primo libro poetico italiano davvero novecentesco. Ungaretti, nato ad Alessandria d’Egitto e formatosi tra Alessandria e Parigi, dove frequenta le avanguardie, è estraneo alla tradizione italiana e, perciò, in grado di fondare una poesia del tutto nuova, incentrata sul valore assoluto della parola, isolata nel verso, privata di punteggiatura, “scrostata” dei ritmi poetici tradizionali. Dichiarano questa poetica le liriche Il porto sepolto e Commiato, che rispettivamente aprono e chiudono Il porto sepolto (sezione centrale nell’Allegria, in origine silloge autonoma, pubblicata a Udine nel 1916). Il leggendario antico porto sepolto sotto il mare di Alessandria è metafora dell’abisso dell’anima, dell’inconscio, dove il poeta-palombaro scende a cogliere i tesori di verità che soltanto la parola poetica è in grado di esprimere. La parola rivela e salva, la non-parola conduce all’angoscia e all’annullamento: nella lirica In memoria Moammed Sceab è apolide come il giovane Ungaretti, ma, a differenza del poeta, non sa salvarsi perché non riesce a sciogliere in canto il proprio dramma. Ne I fiumi il poeta rievoca i fiumi della propria vita per darle ordine e senso complessivo: dal tempo sacro prenatale (simboleggiato dal Serchio, fiume degli antenati lucchesi) a quello dell’inconsapevolezza (il Nilo, fiume dell’infanzia), fino alla scoperta di sé (la Senna, Parigi) e alla piena autocoscienza (il presente di guerra, riscattato dal bagno lustrale nell’Isonzo). Nella lirica In dormiveglia, invece, agisce una memoria involontaria: le schioppettate che si alzano dalle trincee richiamano alla mente del poeta, i colpi, uditi nell’infanzia, degli scalpellini sui lastricati di Alessandria. L’opposizione fra orrore della guerra e forza del viaggio interiore e dell’amore per la vita è evidente in Veglia, dove la cruda immagine del compagno / massacrato con la bocca digrignata penetra nel silenzio del poeta, in quello spazio dell’anima in cui germoglia la parola capace di esprimere lettere piene d’amore e di dichiarare, nonostante tutto, l’attaccamento alla vita.
Con Sentimento del Tempo – la raccolta che apre la stagione dell’Ermetismo – il registro poetico cambia. È ribadito il valore assoluto della parola, che tuttavia è ora slegata dalla realtà contingente, resa davvero assoluta, priva di riferimenti e condizionamenti esterni. In O notte, ad esempio, le parole fluiscono senza referenti, non descrivono ma stimolano alla suggestione, non sono legate in maniera logico-razionale ma per associazioni libere, per analogie. L’analogia è dominante in testi come Lago luna alba notte, dove si produce, già nel titolo, una forma liquida in cui tutto si scioglie e si compenetra. Anche le liriche che sembrano avere un andamento narrativo, come L’isola, in realtà non raccontano alcuna vicenda reale, ma danno vita a catene di immagini analogiche assimilabili, semmai, ad una narrazione di tipo onirico. Dopo i versi spezzati e i sistematici enjambements dell’Allegria, Ungaretti tende ora a recuperare l’unità sintattica e l’unità metrica: tornano i versi tradizionali e le strofe dotate di unità logica.
La lezione si conclude con alcune osservazioni su Fine di Crono e Memoria d’Ofelia d’Alba, due significativi esempi di poesia religiosa. Nella prima lirica Zeus che vince su Crono è, in chiave cristiana, Dio che vince il tempo e torna a prendere possesso dell’universo, come Ulisse con Itaca (gli astri sono Penelopi innumeri). La seconda richiama, già nel titolo, la lirica per Moammed Sceab; anche Ofelia, come Moammaed, si è tolta la vita, ma mentre lui è sprofondato nel nulla dell’oblio, lei ha ottenuto l’immortalità: nei suoi occhi… immortali trovano pace e immortalità anche le cose mutevoli del mondo.

Gli Incontri: 2011-2012

Luigi Surdich al Centro Scolastico Diocesano – 26 gennaio 2011

Mercoledì 26 gennaio 2011

Prof. Luigi Surdich

Università di Genova

Gozzano, l’Oriente, l’Occidente

Secondo Sanguineti, fra i poeti che inaugurano il Novecento vanno tenuti in particolare considerazione Lucini e Gozzano: il primo introduce il verso libero, il secondo rivisita la tradizione in chiave ironico-parodica.
Nel gruppo dei “crepuscolari” – l’originaria definizione di G. A. Borgese ne sottolinea la distanza dalla solarità dannunziana – si possono distinguere almeno tre “scuole”: a) quella romana di Sergio Corazzini, che alla laus vitae di d’Annunzio oppone una laus mortis, in chiave lacrimevole e di autocommiserazione; b) quella romagnola di Marino Moretti (di Cesenatico), che al bel mondo e all’enfasi del poeta vate oppone una poesia sentimentale dimessa, votata alla grigia quotidianità; c) quella torinese di Gozzano, caratterizzata da un raffronto ironico con la realtà; la produzione poetica gozzaniana, a parte i testi sparsi, è concentrata in due raccolte: La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911).
La poesia di apertura ed eponima della prima raccolta (in origine però intitolata Convalescente) – composta a Pegli – pone subito in evidenza un tema centrale: la rinuncia al desiderio. Gozzano è il poeta della rinuncia. Alla vivacità delle nipotine oppone la propria inerzia estrema (Un desiderio? Sto / supino nel trifoglio / e vedo un quadrifoglio / che non raccoglierò), ai loro nomi in bella mostra (Sandra, Simona, Pina) il proprio minuscolizzato e il proprio io quasi reificato (questa cosa vivente / detta guidogozzano). C’è l’eco del poemetto La leggenda del principe Siddharta dell’amico Carlo Ballini: Gozzano è affascinato dalla filosofia orientale, in particolare dall’idea della rimozione del dolore attraverso l’annullamento del desiderio. Fra il male ontologico leopardiano e la divina Indifferenza montaliana, l’inconsapevolezza gozzaniana (…Non agogno / che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza) è una sorta di tappa intermedia. La rinuncia non è, comunque, la strategia esclusiva. Gozzano elabora anche diverse forme di partecipazione alla vita, di mediazione con la realtà. Ne L’amica di nonna Speranza, ad esempio, c’è un vitalismo proiettato nel passato, verso quella data del 28 giugno 1850 della fotografia con dedica che fa da spunto al poemetto.
Gozzano è un poeta che non coincide col proprio presente. Non vi si sottrae, ma lo elabora, lo esorcizza attraverso la letteratura e l’ironia. Nel 1907 inizia il rapporto con la poetessa Amalia Guglielminetti, che si risolve in una relazione quasi esclusivamente epistolare, mediata dalla letteratura. E sempre nel 1907 ha la conferma dell’irreparabilità della propria malattia (la tisi), sulla quale è tuttavia capace di esercitare (come nella poesia Alle soglie) una drammatica ironia.
Le figure femminili create da Gozzano sono sempre sul crinale tra desiderio e frustrazione. Si veda, per tutte, la Signorina Felicita che dà il titolo ad uno dei suoi testi più noti, quasi una novella in versi, in cui il poeta, giocando tra vita e letteratura, verità (i limiti estetici e culturali della ragazza) e menzogna (la propria finta disponibilità all’amore con lei), approda ad un’importante dichiarazione di poetica, riconoscendo che il buono / sentimentale giovine romantico è ciò che finge d’essere e non è, e addirittura arrivando a dire …Io mi vergogno, / sì, mi vergogno d’essere un poeta! È l’esautorazione, la detronizzazione del poeta-vate (Carducci, d’Annunzio e, in qualche misura, lo stesso Pascoli). Lo stesso fanno Corazzini (Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange), Palazzeschi (Son forse un poeta? / No, certo. / […] / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia) ed altri, fino al Montale di Non chiederci la parola. In Ketty, invece, composta al tempo del viaggio in India (1912), Gozzano rilancia la dignità del poeta, il valore della gratuità dell’arte ed anche il senso della storia e della cultura che caratterizza l’Italia e l’Europa, contro il vuoto culturale, la grossolana modernità, il “tanto spazio e poca storia” dell’America (per dirla col Don DeLillo di Underworld), impersonati – nella poesia – dalla mascolina, emancipata e rozzamente ironica ragazza di Baltimora.

Mercoledì 23 febbraio 2011

Prof. Francesco De Nicola

Università di Genova

Gli scrittori italiani e il Risorgimento

La Liguria è protagonista del Risorgimento grazie a personaggi come Mazzini e Garibaldi, ma anche grazie a scrittori come De Amicis, Ruffini, Abba, Barrili. Cuore di Edmondo De Amicis è un libro patriottico. A venticinque anni dall’unità (il romanzo è pubblicato nel 1886), vuole contribuire alla formazione della coscienza nazionale (basti notare come i racconti mensili abbiano per protagonisti ragazzi delle varie regioni d’Italia) attraverso lo strumento principe dell’educazione scolastica (non a caso il racconto è strutturato come diario di un anno di scuola). Fra le pagine più esemplari, quella dell’arrivo del nuovo alunno di Reggio Calabria (Il ragazzo calabrese). Da non dimenticare, in chiave scolastica, anche la Storia dei Mille narrata ai giovinetti di Abba e Garibaldi ricordato ai ragazzi di Angiolo Silvio Novaro.
Lorenzo Benoni e Il dottor Antonio di Giovanni Ruffini sono, rispettivamente, un romanzo di formazione autobiografico e un romanzo di amore e patria. Il primo racconta gli anni di sodalizio dell’autore con Mazzini, la fondazione della Giovane Italia, il fallito tentativo di sollevazione di Genova nel 1833, la fuga all’estero, con uno stile leggero e ironico che deve molto a Dickens. Il secondo, ambientato nella prima parte a Bordighera, narra il contrastato amore fra un giovane dottore e patriota siciliano e una nobile ragazza inglese, Lucy, sullo sfondo delle vicende storiche fra 1840 e 1848. Scritti entrambi in inglese, contribuiscono a far conoscere il Risorgimento italiano in Europa.
In Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille Giuseppe Cesare Abba racconta (a distanza di anni: l’edizione definitiva è del 1891) l’impresa dei Mille, a cui ha preso parte: dal reclutamento al raggruppa-mento a Genova, dai primi dubbi sulla meta alla decisione di puntare sulla Sicilia, dallo sbarco a Marsala alla conquista di Palermo. A questo punto il libro si trasforma in diario di viaggio: Abba documenta il suo itinerario attraverso la Sicilia, alla scoperta di una terra sconosciuta e delle persone che vi abitano. Ma si chiude ancora nel segno di Garibaldi, con il resoconto dell’incontro di Teano e della conseguente delusione del Generale.
Nel segno della delusione si conclude anche Con Garibaldi alle porte di Roma di Anton Giulio Barrili, che racconta l’impresa culminata con la battaglia di Mentana (1867). Come quello di Abba, è anche un libro di viaggio e, a tratti, una guida turistica (ad esempio quando Barrili parla delle visite a Firenze o alle cascate delle Marmore). Alla fine, però, è soprattutto il libro della sconfitta di Garibaldi.

Giannino Balbis presenta Franco Vazzoler al Centro Scolastico Diocesano – 30 marzo 2011

Mercoledì 30 marzo 2011

Prof. Franco Vazzoler

Università di Genova

Letteratura e poesia in Fortini, Pasolini e Sanguineti fra anni Cinquanta e Sessanta

La lezione ruota su due domande di fondo: che cosa unisce i tre autori? che cosa resta della loro opera (in particolare presso i giovani di oggi)? Tutti e tre sono innanzi tutto poeti, ma dediti anche alla narrativa, alla saggistica, alla pubblicistica, alla traduzione (Fortini e Sanguineti sono anche docenti universitari, Pasolini è anche regista). Tutti e tre, pur con diverse sfumature, si riconoscono nell’idea della letteratura come “impegno” (matrice Vittorini); Pasolini, in particolare, è tutto interno al problema del rapporto tra cattolicesimo e marxismo (da Le ceneri di Gramsci e L’usignolo della Chiesa Cattolica ad Accattone e La ricotta ecc.). Sono accomunati, soprattutto, da una visione critica – da diverse posizioni ideologiche – della realtà italiana dal primo dopoguerra agli anni ’60-’70.
In conclusione sono letti e commentati tre testi: La gioia avvenire di Fortini (del ’46), Il pianto della scavatrice di Pasolini (poemetto del ’56, compreso ne Le ceneri di Gramsci) e A domanda rispondo… di Sanguineti (da Cataletto del 1982).

Francesco De Nicola al Centro Scolastico Diocesano – 19 ottobre 2011

Mercoledì 19 ottobre 2011

Prof. Francesco De Nicola

Università di Genova

La letteratura italiana fra ’800 e ’900: tradizione e innovazione

La canzone All’Italia di Petrarca e l’omonima canzone di Leopardi sono lontane mezzo millennio l’una dall’altra, ma contemporanee sul piano della lingua. Ciò per effetto del lungo primato del petrarchismo, che, dal canzoniere di Boiardo ai sonetti di Michelangelo, da Marino a Chiabrera, da Alfieri a Foscolo e Leopardi, fissa per secoli i canoni della lingua poetica, staccando di fatto la letteratura dal mondo, dalla vita, dalla lingua d’uso. Monumento e repertorio normativo della lingua letteraria è, dalla metà del ’500, il Vocabolario della Crusca (1a ediz. 1612), che, ancora nell’800, non ammette fra i propri autori di riferimento scrittori posteriori a Tasso.
Per secoli, dunque, in Italia la produzione scritta ha un pubblico molto ridotto (solo nel secondo ’900 ci saranno le condizioni per una letteratura di massa). La poesia resta elitaria e aristocratica; il primo ’800 annovera solo due romanzi di rilievo: l’Ortis di Foscolo e i Promessi sposi di Manzoni. Dei 3.300 libri che escono in Italia nel 1836, 650 sono testi religiosi, 400 di poesia e 182 di narrativa. Ancora nel 1861, d’altronde, il 75% degli italiani è analfabeta, solo 3 milioni sanno leggere, solo 150.000 hanno fatto studi sopra le elementari, solo 40.000 sono laureati. Per altro, per buona parte dell’800, manca anche una lingua adatta al romanzo, ovvero vicina alla realtà e condivisa (nell’anno dell’unità, ci sono nella penisola solo 800.000 italofoni, dei quali solo 200.000 fuori della Toscana).
Un decisivo passo per allontanare la lingua scritta dai modelli letterari e avvicinarla alla lingua d’uso è compiuto dai giornali (si pensi solo al Caffè e al Conciliatore), anche grazie alla moda del romanzo d’appendice. Contributo importante è quello della scuola pubblica post-unitaria. Decisivo, poi, il cambiamento di statuto del letterato: non più un nobile intellettuale, propenso ad osservare la realtà piuttosto che a viverla, ma uno scrittore con esperienze vissute, protagonista e testimone – anche nella lingua – della realtà del proprio tempo. Gli esempi possono essere molti: da Collodi a De Amicis, da Nievo a Verga e De Roberto, da Fogazzaro a Barrili. La letteratura ora viene dopo la vita.
In poesia le novità sono più lente rispetto al romanzo, che, non avendo alle spalle una lunga tradizione, può cambiare più rapidamente. Il classicismo di Carducci (si rilegga Congedo, del 1887) domina la scena del secondo ’800 (limitata è l’influenza in Italia di Baudelaire e dei simbolisti francesi). Solo con Pascoli ha inizio una nuova poesia che apre la strada al ’900. Se ne può avere un esempio confrontando Notte di maggio di Carducci con L’assiuolo di Pascoli, testi accomunati dal tema, ma molto diversi nella metrica, nel vocabolario, nello stile, nella concezione stessa della funzione della poesia. Un altro esempio si può cogliere in Contrasto (da Myricae), dove Pascoli contrappone la propria poesia (che, in solitudine, umilmente, in maniera anonima, osserva e riosserva la realtà per coglierne un sasso qualunque e trasformarlo in pietra preziosa) alla poesia carducciana e dannunziana (dove l’artista mette in mostra le proprie doti non comuni, le proprie infinite potenzialità, esigendo di essere ammirato).

Mercoledì 16 novembre e 14 novembre 2011

Prof. Gian Giacomo Amoretti

Università di Genova

La narrativa di Pirandello: oltre il Verismo

La lezione del prof. Amoretti, articolata in due incontri, si è appuntata in particolare su due romanzi fra i più rappresentativi della narrativa pirandelliana: Il fu Mattia Pascal e I vecchi e i giovani.

Il fu Mattia Pascal inaugura in Italia la narrativa del ’900 ed è tra i primi in Europa a segnare il passaggio dal romanzo ottocentesco a quello novecentesco, sancito poi definitivamente – per quanto riguarda Pirandello – da Suo marito, Si gira (Quaderni di Serafino Gubbio operatore) e soprattutto Uno, nessuno e centomila (mentre i primi due romanzi, L’esclusa e Il turno, sono ancora di taglio veristico e I vecchi e i giovani è di taglio storico-veristico).
Nella stagione del Realismo-Naturalismo-Verismo (secondo ’800) il romanzo era attento principalmente al milieu, all’ambiente, come fattore condizionante e determinante l’individuo; nel ’900, invece, si punta sulle singole psicologie, sull’unicità e sull’imprevedibilità dei comportamenti individuali rispetto al contesto (si vedano, per esempio, la Recherche di Proust, la Coscienza di Zeno di Svevo, L’uomo senza qualità di Musil, i romanzi di Kafka).
In quali parti e in quali caratteri si coglie la distanza del Pascal dal Verismo? Nell’incipit, innanzitutto, diametralmente opposto a quello de L’esclusa: nel primo romanzo è subito in evidenza un narratore onnisciente in terza persona (tipico del romanzo realistico e veristico), mentre nel Pascal il narratore parla in prima persona ed esordisce dicendo di non sapere quasi nulla tranne il proprio nome (dello stesso tenore sarà la conclusione del romanzo).
Il personaggio Pascal, inoltre, a differenza dei personaggi di Zola e di Verga, è privo di identità sociale, non appartiene ad alcun luogo reale: non è siciliano (a differenza dei protagonisti dei primi due romanzi), ma di un inesistente paese del ponente ligure (Miragno); vive in luoghi-non luoghi (dalla biblioteca al cimitero); non è espressione di un milieu sociale (come Parigi per Zola o la Sicilia per Verga), ma dell’umanità in generale, depurata da ogni condizione concreta.
Pascal, poi, non è padrone della propria vita, ma si lascia vivere: si può dire che sia vissuto dal caso (il casinò, il cadavere ritrovato ecc.). È il caso, secondo Pirandello, a determinare i momenti principali dell’esistenza. Emblematico al riguardo (nel cap. 6) il passo dedicato al casinò, luogo in cui si venera il dio-caso, con la pallina adorata come una vera divinità; ma tutta la trama del Pascal è nel segno del caso. Ciò contrasta profondamente con l’idea ottocentesca che la realtà sia razionale o almeno razionalizzabile.
Significativa è anche l’assenza di legame tra la prima e la seconda parte del romanzo: nulla accomuna la trama dell’una a quella dell’altra, tranne la presenza del protagonista (peraltro con diversa identità). E altrettanto significativa è l’improvvisa interruzione delle vicende romane di Meis-Pascal, che la svolta finale del romanzo (il finto suicidio di Meis, la partenza da Roma e il tentativo di rientrare nell’identità primitiva) lascia in sospeso, senza soluzione alcuna.
Il saggio L’umorismo, non a caso, è dedicato alla buonanima del fu Mattia Pascal: il romanzo, infatti, anticipa ed esemplifica la poetica della comicità (“avvertimento del contrario”) e dell’umorismo (“sentimento del contrario”) teorizzata nel celebre saggio. Se è vero che la componente filosofica è fondamentale in Pirandello e i suoi romanzi possono essere definiti opere a tesi, la tesi su cui ruota il Pascal è che ogni individuo è obbligato a darsi delle maschere, ovvero delle forme di identità personale e sociale, attraverso le quali soltanto può vivere e rapportarsi agli altri. Solo il protagonista di Uno, nessuno e centomila, Vitangelo Moscarda, sarà capace di farne a meno, arrivando a privarsi del proprio stesso nome e a vivere nel flusso della vita universale, come albero, nuvola, vento.

Marco Berisso al Centro Scolastico Diocesano – 29 febbraio 2012

Mercoledì 29 febbraio 2012

Prof. Marco Berisso

Università di Genova

La Neoavanguardia in Italia: storia ed esempi

Nella prima parte della lezione il prof. Berisso ricostruisce le fasi della nascita della Neoavanguardia italiana, dall’esperienza del “Verri” di Luciano Anceschi (la rivista è fondata a Bologna nel 1956) all’antologia poetica I Novissimi (Einaudi, 1961, a cura di Alfredo Giuliani, con testi dello stesso Giuliani e di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Elio Pagliarani), fino al convegno di Palermo (3-8 ottobre 1963) da cui prende vita il “Gruppo 63”. Di questo viene quindi illustrata l’eterogenea composizione (fra gli originari 53 aderenti si annoverano neorealisti in senso lato, come Del Buono, La Capria e Lucentini; reduci dall’esperienza di “Officina”, come Leonetti; critici d’arte, come Tadini; pittori, come Falzoni; giornalisti, come Furio Colombo; i cinque poeti dell’antologia I Novissimi; altri cinque giovani poeti, ecc.), l’assenza di un manifesto programmatico e di un esclusivo orientamento ideologico (si fronteggiano, in particolare, le posizioni di Guglielmi e Sanguineti: per il primo l’avanguardia deve essere a-ideologica e a-storica, per il secondo è espressione attraverso il linguaggio un’ideologia). Generale è invece l’insoddisfazione nei riguardi del rapporto in atto fra letteratura e realtà, nel contesto dell’Italia degli anni ’50-’60, teatro di cambiamenti radicali: urbanizzazione, industrializzazione, alfabetizzazione di massa, progressiva affermazione di una lingua comune (grazie alla televisione), nuovi fermenti politici (tra guerra fredda, guerra di Corea, guerra del Vietnam), nuova industria editoriale. Agli scrittori neorealisti, che sacrificano al contenuto la ricerca formale (abbassando il linguaggio verso il livello del parlato), la Neoavanguardia oppone un’idea di letteratura che si occupi della realtà ma, al contempo, sia attenta agli elementi formali, abolendo ogni differenza tra contenuto e forma (ciò che si dice è come lo si dice), facendo interagire dialetticamente la lingua d’uso con quella della tradizione letteraria, riconoscendo dignità letteraria ad ogni codice linguistico della contemporaneità, ponendo in discussione il problema dell’io lirico. L’avventura della Neoavanguardia termine di fatto nel 1968, quando la rivista “Quindici”, voce del “Gruppo 63”, decide di non dare più spazio ai testi letterari per occuparsi esclusivamente di politica militante (diviene la voce del movimento studentesco).
Nella seconda parte della lezione vengono letti e commentati tre testi esemplari della Neoavanguardia italiana: uno stralcio del poemetto La ragazza Carla di Pagliarni, la parte iniziale di Laborintus di Sanguineti e De Magnalibus Urbis M. di Balestrini.

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Marino Boaglio al Centro Scolastico Diocesano – 28 marzo 2012

Mercoledì 28 marzo 2011

Prof. Marino Boaglio

Università di Torino

Natura e simbolismo nelle Myricae di Pascoli

Dopo aver richiamato i momenti più significativi della biografia di Pascoli, la sua poetica (con lettura e commento di passi de Il fanciullino), i caratteri salienti, le novità tematiche e formali della sua poesia, la lezione si è appuntata sull’analisi approfondita di due liriche fra le più note e rivelatrici di Myricae: Lavandare e Novembre.